venerdì 10 novembre 2017

Chiacchierata con Tom Drury, su "A caccia nei sogni" e la trilogia di Grouse County

Buongiorno a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
Oggi il blog ospita un autore molto speciale: Tom Drury, autore della trilogia di Grouse County edita NN Editore. Il secondo capitolo, "A caccia nei sogni", è in libreria da pochi giorni, e abbiamo potuto incontrare l'autore e scoprire qualcosa di più:
Tom Drury ritorna a Grouse County per raccontare pochi giorni cruciali nella vita della famiglia Darling, in cui tutti cercano di ottenere qualcosa, ma senza sapere come farlo. Charles, ovvero Tiny, vuole un vecchio fucile legato a un ricordo d'infanzia; Joan, sua moglie, è in cerca delle aspirazioni perdute; Lyris, la figlia di Joan, vuole trovare un punto fermo da cui cominciare davvero a crescere; e il piccolo Micah, figlio di Charles e Joan, vuole sfuggire al buio della sua stanza a costo di perdersi nel buio delle strade cittadine, Dalla vastità dei panorami della Fine dei vandalismi, Drury si concentra adesso su un frammento di quel mondo, racchiuso in un unico weekend, in cui gli eventi si dilatano come nei sogni e i protagonisti rivelano tutta la loro umanità, nell'intensità dei desideri e negli sforzi, ora comici ora drammatici, per diventare persone migliori.

In una location accattivante come la libreria Verso, a Milano, Tom Drury ci ha raccontato come sia nata la serie, il suo passato da giornalista, il Midwest e molto altro!

Com'è nato il progetto della trilogia di Grouse County?
Nel 1990 avevo scritto un racconto per il New Yorker. Ero già stato contattato dalla rivista, e avevo mandato diverse cose, ma ricevevo risposte del tipo "sì, è interessante ma cerca di scrivere qualcosa d'altro perché questo non è esattamente quello che stiamo cercando".
In qualche modo questi rifiuti avevano qualcosa di molto incoraggiante, sapevo di avere l'opportunità di pubblicare con loro e così mi sono seduto a scrivere questo racconto intitolato "La fine dei vandalismi" che è stato in effetti il mio primo pezzo pubblicato dal New Yorker.
La direttrice di allora mi aveva poi chiesto di scrivere qualcosa d'altro e io ho domandato "vi dispiacerebbe se io continuassi a scrivere degli stessi personaggi?" Lei mi ha risposto che andava benissimo, perché alla fine avrei avuto un romanzo, ed effettivamente è andata proprio così. Lo stesso meccanismo si è ripetuto con i romanzi successivi, ma nel frattempo ho scritto anche altre cose.
 Da dove prende ispirazione? Quanto c'è di autobiografico nei suoi romanzi?
È come se, tutti insieme, costituissero un'autobiografia in piccoli frammenti. L'immagine che uso per spiegarla è questa: se uno immaginasse di vedere la propria vita dipinta su una serie di pannelli di vetro e poi questi si dovessero frantumare e mescolarsi fra loro, il processo di scrittura della fiction è come guardare questi frantumi per terra, raccoglierne uno, magari quello che trovi più interessante o ti dà maggiore ispirazione, iniziare da lì e poi inserirne un altro, che nella vera vita magari non è stato il momento successivo, e continuare così. La fiction è composta da elementi della tua vita scomposti e ricomposti a formare una nuova narrazione. Il processo di scrittura diventa così una reinvenzione della tua vita trasformandola per dare vita a questi nuovi personaggi. Come comporre un mosaico.

La sua è una letteratura del quotidiano che parla di persone semplici dalle alterne fortune. Lo stile nasce già così piano e solo apparentemente semplice oppure il processo di scrittura passa da uno stile più ricco che viene depurato?
La mia è sempre una riscrittura e l'editing è una parte fondamentale del lavoro. Ci sono delle scene che butto giù, non mi convincono o mi convincono solo in parte e riscrivo da capo. L'idea è di avere una voce che suoni spontanea, ma questo risultato non si ottiene semplicemente descrivendo quello che viene in mente, ma attraverso un processo di riscrittura che porti a uno stile semplice.
È più difficile popolare un intero mondo di personaggi  con le loro storie parallele oppure entrare in profondità in pochi caratteri e concentrarsi su di loro?
Non ricordo di aver pensato "quanto è facile scrivere questo libro". Da un certo punto di vista è stato più difficile, in altri momenti più facile. Era positivo avere una struttura temporale rigida entro cui lavorare. Mi sono divertito molto a scriverlo, ma non direi che sia stato più facile. Non ho impiegato tanto tempo a scriverlo, ma dovendomi concentrare sui monologhi interiori dei personaggi qualche volta mi capitava di avere delle difficioltà . Tutti i libri sono difficili, a modo loro.
"La fine dei vandalismi" era un libro più ottimista che portava in sè una maggiore allegria, mentre questo è un romanzo più dark e notturno, con molte scene ambientate nei boschi o nelle città deserte, con scenari che hanno un alone di mistero e in qualche modo di  pericolo.
Volevo mettere in scena la precarietà della vita di Tiny e Joan e dei figli, mostrare quanto fossero più vicini alla separazioe e alla distruzione di quanto non fossero stati Dan e Louise alla fine di "La fine dei vandalismi". Da un punto di vista emotivo ero molto vicino ai personaggi, e mi preoccupavo per loro.

Perché i sogni hanno così tanta importanza in questo libro?
Credo che i sogni abbiano una particolare importanza per i personaggi. Spesso consideriamo i sogni dei momenti in cui la mente vaga senza una particolare significato, ma io credo che in realtà abbiano un significato. L'ambientazione notturna, poi, ricorda il mondo onirico e fa scivolare i personaggi in modo fluido dalla realtà ai loro sogni. Per me sono importanti, e mi è piaciuto scriverne e raccontarli stando attento a non eccedere con la simbologia, mantenendo un senso casuale per cui a volte un sogno potrebbe avere significato, ma anche no.

Questo libro mi è sembrato  un invito alla lentezza, a prendersi del tempo per entrare nei dettagli di queste storie e questo, da lettore, mi è piaciuto molto. Ma da scrittore qual è il fascino di raccontare queste persone semplici?
Io sono cresciuto in un luogo molto simile a quello che racconto nel romanzo. Le persone che descrivo le ho viste, e c'è una parte di me che corrisponde a questo universo, anche se io me ne sono andato via per frequentare l'università e poi non ci ho più vissuto, se non per quattro mesi nel 2014.
Ho ricordi molto vivi di quel periodo, della mia infanzia, perché sono le cose  che si ricordano per più tempo e sono forse le più importanti, anche se spesso non sai esattamente perché te le ricordi.
Il fatto stesso che l'inconscio li faccia riaffiorare li rende dei ricordi importanti. E poi nella scrittura confluisce l'esperienza di tutti gli altri luoghi in cui ho vissuto, dalla Florida all'Europa.
Nel romanzo si è immersi in un clima di familiarità, tipico della contea, dove si respira una forte coesione.
I personaggi avvertono questo forte senso di comunità, positivo e negativo insieme. Significa, per esempio, rivedere sempre le stesse persone, e dover forgiare la propria personalità in base alle esigenze della comunità, a volte reprimendole proprie.
Quando sono andato a vivere a Berlino mi sono chiesto cosa stessi cercando: una comunità, amici da frequentare? La contea offre proprio questa dimensione.
L'appartenenza al grande stato americano, però, a me sembra un'idea che rimane spesso lontana dalle persone della contea, che considerano il proprio mondo nella dimensione locale. Le questioni di rilevanza nazionale legati all'attualità, invece, sono rimaste fuori dai miei libri perché li avrebbero legati a un determinato periodo, ed era qualcosa che volevo evitare.

Tornando a casa, ha avvertito cambiamenti nel "suo" Midwest? E quali sono per lei gli scrittori che l'hanno descritto meglio?
Il cambiamento è inevitabile. Le fattorie familiari che descrivo ne "La fine dei vandalismi", ad esempio, non esistono più: sono state assorbite da grandi aziende agricole, perché oggi l'agricolutra è diventata in generale un'impresa di grandi dimensioni. Ho cercato di conservare il ricordo del mondo degli anni Settanta, quello in cui sono nato e cresciuto.
C'è un libro  di Daniel Woodrell, "Un gelido inverno", che non è ambientato proprio nel Midwest ma nel Missouri, che parla dei cambiamenti della vita rurale e della vita degli Stati Uniti nelle diverse stagioni.  Un altro libro che amo molto e che consiglio è una raccolta di racconti di Chaviza Woods, "Things to Do When you're a Goth in the Country".

Lei si è laureato in giornalismo e poi col tempo si è dedicato solo alla scrittura. A cosa è dovuto questo cambio di direzione? Pensa che il lavoro giornalistico le sia stato utile, per esempio per scandagliare le emozioni, per essere un ottimo osservatore del mondo emozionale?
Quand'ero al liceo sapevo di voler diventare un romanziere, ma non mi era molto chiaro il percorso.
Ho fatto la cosa che mi sembrava più sensata studiando giornalismo, che in qualche modo mi avrebbe permesso di guadagnarmi da vivere scrivendo. A un certo punto ho capito che dovevo lasciare il giornalismo per fare sul serio, e mi sono iscritto a un'università vicino a Providence dove vivevo per laurearmi in scrittura creativa: ho capito che avevo bisogno di capire molte più cose riguardo alla scrittura, di leggere e di studiare di più la letteratura angloamericana.
Il giornalismo ti permette di osservare così tante persone in situazioni diverse che questo rappresenta senz'altro un ottimo allenamento per riuscire poi a creare dei mondi che siano sì inventati, ma che assomiglino di fatto al mondo reale.

Sono felicissima di aver potuto incontrare l'autore di "La fine dei vandalismi" e di "A caccia nei sogni", e aspetto già con ansia il terzo volume della trilogia.
Serie consigliatissima, davvero.

Un bacio a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
A presto <3

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